Il Relational Singing Model (RSM)

Per presentare il Relational Singing Model (RSM) può essere utile richiamare pochi concetti chiave:

– primato dell’attività musicale rispetto al semplice ascolto
– centralità del canto
– speciale attenzione per la dimensione melodica

 

Fare, non solo ascoltare

Su questo primo aspetto convergono numerose ricerche ed esperienze, che abbiamo in parte presentato nella sezione Chi ci ha ispirato . Al semplice ascolto della musica il nostro cervello si predispone al movimento e al canto, e l’attività d’insieme potenzia tanto questo effetto motorio quanto l’empatia e il senso di affiliazione che ne conseguono.

 

Canto, innanzi tutto

Il canto è relazionale per natura Potremmo persino azzardare che anche cantando da soli sotto la doccia ci mettiamo in comunicazione con qualcosa – la nostra voce, il nostro corpo che canta; ma il potere di relazione interpersonale diventa esplosivo quando cantiamo con l’altro, chiunque sia: con un neonato che ci restituisce vocalizzi, durante un raduno (sportivo, patriottico o militare che sia), fra amici, in un coro scolastico, professionale o amatoriale, e così via.
La voce è lo strumento con cui abbiamo familiarità fin dalla prima infanzia, indipendentemente da ogni percorso di educazione musicale che sceglieremo o che ci verrà successivamente imposto. I neonati preferiscono ascoltare una voce umana rispetto a suoni sintetici caratterizzati dagli stessi parametri fisici, e a sei mesi al parlato materno preferiscono il canto, la cui regolarità favorisce quella coordinazione e sintonizzazione ben nota agli psicologi che la studiano da decenni.

 

Ritmo, movimento e melodia.

L’attenzione degli psicologi, tanto sperimentali quanto clinici, si è tradizionalmente concentrata sul ritmo e sulla pulsazione, quel battito regolare di fondo che favorisce la sincronizzazione del movimento e il senso di coesione. Si tratta di una sensibilità molto precoce, che può facilmente essere sfruttata per fini educativi, per esempio per favorire e motivare l’apprendimento e la memorizzazione. Queste considerazioni interessanti sollecitano indubbiamente ulteriori riflessioni rispetto, per esempio, all’opportunità di usare in modo mirato ritmi binari o ternari, molto diversi tra loro per il tipo di movimento che spontaneamente inducono.
L’attenzione tradizionalmente accordata al ritmo non deve tuttavia relegare in secondo piano la dimensione che potremmo sintetizzare con il generico termine di “melodia”, per denotare elementi quali l’andamento dinamico, l’altezza, l’ambito intervallare e la durata delle note e delle strutture intermedie che la compongono, o, ancora, la tipologia di sospensioni e cadenze. Non a caso, crediamo, i primi canti che sentiamo sono le ninnananne, stimoli universalmente salienti dal punto di vista melodico ma pressoché privi di elementi ritmici chiaramente percepibili. O meglio, si tratta di una ritmica duttile che si adatta ai tempi della comunicazione tra caregiver e bambino e non, viceversa, di un ritmo predeterminato sul quale sincronizzarsi “senza discuterne”. Più in generale, il linguaggio che l’adulto utilizza spontaneamente con il bambino ha un contorno melodico speciale, accentuato e dolce, perfetto per esprimere l’emozione attraverso la musica.

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